spigolature

Giorni convulsi questi. Crisi di governo, democrazia in piazza, lavoro in bilico. Sempre più spesso credo che dovrò trovare nuove strade visto come si stanno mettendo le cose. Lo stato sociale il prossimo anno morirà spazzato via da questa classe dirigente che non è in grado di gestire al meglio il bene comune.

Sempre più convinto che ci sarà un’ondata che spazzerà via tutti e tutto. Solo chi è onesto e coerente si salverà. E per la serie la coerenza è il mio punto forte, vi riporto un po’ di notizie ANSA di qualche anno fa. E ricordiamoci che la memoria ci rende liberi.

 

“L’idea che a un capo di Stato in visita nella capitale del nostra nazione (George W. Bush, ndr) non sia possibile visitare una chiesa e la sede di un’associazione sociale in un quartiere di Roma è un duro colpo per l’immagine della nostra città e dell’Italia. Roma è la capitale, la sede della Città del Vaticano, del turismo e dell’accoglienza e non può subire una simile offesa. Mi pare quindi inaccettabile che il sindaco di Roma Veltroni, che si è sempre qualificato come il garante dei valori di apertura e solidarietà della nostra città, di fronte a questa pessima figura non trovi niente di meglio che esprimere generiche preoccupazioni e fare il Ponzio Pilato. La realtà è che ancora una volta Roma, amministrata dal centrosinistra, e la nostra nazione governata da Prodi si sono dimostrate prigioniere dei ricatti politici delle violenze di piazza dell’estrema sinistra e di chi nel governo si incarica di rappresentare questi estremisti”.
(on. Gianni Alemanno, An, Ansa, 8 giugno 2007).

“Tutta la città di Roma deve un profondo ringraziamento agli oltre diecimila uomini in divisa che ieri, con il loro impegno, con il loro coraggio e con la loro pazienza, hanno impedito che gli scontri di piazza organizzati contro il presidente Bush dilagassero in tutta la città. Nessun ringraziamento va invece fatto ai promotori delle manifestazioni che dovrebbero essere consapevoli del fatto che, organizzando proteste in concomitanza con eventi critici come quello di ieri, non possono non creare l’occasione per incidenti e violenze da parte delle frazioni più estremiste. Nelle violenze c’è una responsabilità oggettiva che coinvolge tutta l’estrema sinistra, parlamentare e non, che ha fortemente voluto demonizzare la visita a Roma del presidente Bush. Mi auguro che il problema dei gruppi estremistici nella Capitale non venga archiviato in attesa passiva di nuovo scontri e di nuove violenze. C’è infatti, nella nostra città un vasto arcipelago di gruppi estremistici che predicano ogni giorno la violenza come strumento di lotta politica e che poi la praticano ogni qual volta hanno un’occasione di visibilità e di agibilità. Questo arcipelago viene mantenuto artificialmente in vita, tollerando occupazioni e illegalità diffusa che creano uno spazio antagonista fuori da ogni controllo”.
(on. Gianni Alemanno, An, Ansa, 10 giugno 2007).

“Un gruppo di giovani appartenenti a formazioni di destra hanno tentato questa mattina, poco prima dell’arrivo del presidente americano Bush a Nettuno, di sdraiarsi per terra nella piazza verso la quale il capo della Casa Bianca era diretto, per bloccare il corteo.   I ragazzi, una trentina secondo la Polizia, sono stati dispersi dalle forze dell’ordine, che ne hanno fermati alcuni e li hanno portati al commissariato di Anzio per essere interrogati, altri sono scappati. Già nei giorni scorsi volantini scritti da organizzazioni di destra erano circolati nella zona ‘Contro lo sbarco americano a Nettuno’… Sugli incidenti avvenuti a Nettuno, la federazione romana del Msi ha emesso un comunicato per stigmatizzare il comportamento di Polizia e Carabinieri. I giovani del Fronte della Gioventù – afferma la nota – erano guidati dal segretario nazionale Gianni Alemanno. Quando i manifestanti si sono gettati a terra – conclude il comunicato – hanno innalzato striscioni con le scritte ‘Alleati sì, servi no’ e a favore di una piena autonomia dell’Italia all’interno della Nato… L’ufficio stampa del Msi ha diffuso una nota in cui è detto: ‘Appare inaccettabile e incomprensibile la durezza inaudita usata dalle forze di polizia contro i giovani missini, contro i quali sono stati usati metodi che appartengono solo ai regimi liberticidi e che hanno giustamente indignato i cittadini di Nettuno’…”.

(Ansa, 28 maggio 1989).

“Tredici aderenti al Fronte della Gioventù sono stati arrestati a causa degli incidenti avvenuti ieri mattina a Nettuno, poco prima del passaggio del corteo con il presidente degli Stati Uniti e la moglie, che si recava in visita al cimitero americano. Tra gli arrestati, Giovanni Alemanno, segretario nazionale del Fronte della Gioventù. Le accuse sono quelle di resistenza aggravata a pubblico ufficiale, manifestazione non autorizzata, tentativo di blocco di un corteo ufficiale… Durante gli incidenti un funzionario di polizia, un agente e un carabiniere sono rimasti feriti in modo non grave. Poco dopo l’arrivo di Bush a Nettuno, alcuni aderenti al Fronte della Gioventù hanno organizzato un sit-in con cartelli di protesta e, dopo un primo invito ad abbandonare la carreggiata da parte della polizia, al quale non hanno aderito, sono stati trascinati via di forza. Anche alcuni cittadini, che erano in attesa del passaggio di Bush, hanno rincorso i manifestanti perché ritenevano che avessero disturbato in modo provocatorio un avvenimento che a Nettuno era particolarmente sentito. Le segreterie nazionale e provinciale del Fronte della Gioventù hanno stgmatizzato il comportamento della Polizia e dei Carabinieri i quali, si legge in una nota, ‘hanno aggredito brutalmente i manifestanti, colpendoli con calci e pugni e con la bandoliera usata come frusta e hanno colpito alcuni giovani con le radio portatili in dotazione’. Per quetso motivo il Fronte della Gioventù ‘chiede l’immediata scarcerazione dei 13 giovani arrestati e l’apertura di un’inchiesta da parte della magistratura per accertare le responsabilità di chi ha dato l’ordine di aggredire e disperdere, con inusitata violenza, una manifestazione che aveva carattere pacifico e non violento'”.
(Ansa, 29 maggio 1989).

“Gianni Alemanno, il segretario nazionale del Fronte della Gioventù, e gli altri missini che erano stati arrestati a Nettuno, sono stati scarcerati. Lo ha reso noto un comunicato del Msi, precisando che Alemanno è stato interrpogato in carcere dal magistrato, che gli ha poi concesso gli arresti domiciliari. Nel comunicato si afferma che ‘la manifestazione di Nettuno voleva rappresentare un monito per chi troppo facilmente dimentica il nostro passato e offende la memoria di migliaia di caduti che si sono battuti per la dignità della Patria, mentre altri pensavano solo a guadagnarsi i favori dei vincitori'”.
(Ansa, 30 maggio 1989).

Come sarebbe bello

Vi riporto un articolo di Giuseppe D’Avanzo, giornalista scomparso pochi mesi fa. Parla di rugby. Lui rugbista, come me, e in occasione del mondiale 2007 in occasione di Nuova Zelanda – Italia scriveva queste righe. Sarebbe bello un mondo più rugbistico!

 

“Noi appassionati del rugby – diversi e un po’ sfigati come può esserlo in Italia chi non ama il calcio – abbiamo un sogno: vedere l’ 8 settembre a Marsiglia, quando l’Italia giocherà con gli All Blacks la partita di esordio dei Mondiali, il premier, il leader dell’ opposizione. Perché no?, il capo dello Stato. In buona sostanza, chi ha sulle spalle la responsabilità di guidare il Paese.
Per un motivo elementare: abbiamo la convinzione che l’Italia abbia bisogno del rugby; che i princìpi del rugby consentano di guardare meglio lo «stato presente del costume degli italiani». Siamo persuasi che questo gioco possa migliorare l’Italia. È un mistero inglorioso, per gli italiani, il rugby. Pochi sanno esattamente di che cosa si tratta. È un peccato perché il rugby ha le stesse capacità mitopoietiche del calcio e, come il calcio, permette di interpretare il mondo.
Dalla sua, il football può vantare moltissimi scrittori che si sono misurati con quest’impresa. Qui da noi con il rugby si è misurato soltanto, che io sappia, Alessandro Baricco con tre cronache (due su questo giornale) che, per noi del rugby, sono ancora oggi una medaglia da mostrare in giro. Di quelle cronache, negli spogliatoi e sugli spalti semideserti, se ne conoscono le frasi a memoria. Un paio in particolare: «Rugby, gioco da psiche cubista»; «Qualsiasi partita di rugby è una partita di calcio che va fuori di testa». Non si discute la scintillante eleganza della scrittura. Mi sembra, però, che la prova di Baricco confonda quel poco che nel rugby è chiaro. «Psiche cubista». A naso, credo che si possa contestare l’ accostamento tra i volumi, i vuoti del cubismo e il rugby. Il rugby è fatto di traiettorie e di pieni, quando è ben organizzato e giocato. Se si apre un vuoto è per sfinitezza o errore tattico. L’omogeneità dello spazio non interrotto, impenetrabile alle cose, di Braque mi appare l’immagine rovesciata del rugby dove i giocatori devono irrompere continuamente nello spazio altrui.
Il fatto è che faccio molta fatica a vedere nella leggiadria nuda e molle de Les demoiselles d’Avignon di Picasso l’ di una “linea trequarti”, nella certezza che non si possa trattare di un “pacchetto di mischia” (gli “avanti” hanno troppo da fare là sotto per essere leggiadri). Soprattutto i tempi non tornano. Quando il cubismo nacque tra il 1907 e il 1908 al Salon d’ Automne, il rugby era già più che maggiorenne con i suoi ottantaquattro anni, se è vero che uno spiritello anarchico consigliò a quel mattocchio d’ irlandese di William Webb Ellis – nel Bigside della “pubblic school” di Rugby – di afferrare la palla con le mani e di non giocarla con i piedi, il 1 novembre del 1823. Qualcosa sulla natura del gioco vorrà, dovrà pure svelarsi se è nato nel terzo decennio dell’ Ottocento e non nel primo del Novecento. La differenza – mi pare – è addirittura decisiva per comprendere quale cultura, nella sua fase originaria, sia custodita dal carattere del gioco. A cavallo di quel 1823 in Inghilterra è in corso una rivoluzione. Il Paese – il primo Paese urbanizzato e modernizzato della storia – è “l’officina del mondo”, un vortice impetuoso di scienza, tecnologia, industria, istruzione, cultura, riformismo politico che cancella le antiche demarcazioni sociali tra signori e contadini, fra agricoltori nelle campagne e artigiani nelle città. La forza di quel processo di modernizzazione in movimento in quegli anni divide più che unire.
Nella grande Isola, scrive Benjamin Disraeli, ci sono “due Nazioni”: «Non vi è comunità in Inghilterra~ Crediamo di essere una Nazione e siamo due Nazioni sullo stesso territorio, due Nazioni ostili nei ricordi, inconciliabili nei progetti». (Già qui qualche eco della nostra attuale condizione dovrebbe appassionarci). Nella palude di una nazione divisa affiora la necessità di trovare ragioni comuni, l’ urgenza di creare un sistema educativo capace di formare giuristi, medici, funzionari dello stato, scienziati che sappiano – sì – lavorare con efficienza, ma siano anche consapevoli dell’ interesse pubblico e dotati di “buone maniere”. In questo bisogno prende forma l’ idea di Thomas Arnold, preside della Rugby School, l’autentico padre del gioco, al di là del mito fondativo che fa di William Webb Ellis l’eroe. Egli immagina un nuovo modello educativo fondato su una “cristianità energica”, sul servizio alla collettività, sulla disciplina abbinata al senso di responsabilità; una formazione innervata da valori che, senza rallentare “l’officina del mondo”, cancelli la frattura che si è creata tra le “due Nazioni” con il rispetto e la reciproca comprensione, una memoria comune, un progetto non più “inconciliabile”, ma condiviso. (Quanto questo sia necessario – oggi – all’ Italia è inutile dire). Thomas Arnold è convinto che lo sport possa avere un ruolo essenziale in questa missione. Il corpo lo si può dire veramente “formato”, conclude, soltanto quando con tutte le sue risorse è al servizio di un ideale morale. Lo sport non è più svago, allora. Diventa un cardine della “formazione morale”. Se ogni ragazzo conosce la vittoria e la sconfitta, si rafforza la sua stabilità emotiva. Lo si prepara al servizio sociale perché si confronta con grande impegno in un quadro di regole reciprocamente accettate. Gli si insegna a rispettare l’ avversario pur volendolo sconfiggere. Lo si educa ad accettare serenamente e senza alibi l’ esito della competizione. Una partita – soprattutto la brutale franchezza di una partita di rugby – apre il solco entro cui si definisce un ethos, un’ idea di gentleman, un modo di stare al mondo e con gli altri.
Offre la possibilità di dimostrare forza d’ animo, coraggio, capacità di sopportazione, tempra morale, la materia grezza di quella etica del fair play, che trova il suo slogan nell’esortazione vittoriana Play up and play the man! Gioca e sii uomo. Perdonatemi la tirata. Voglio dire che il rugby è spesso raccontato con una retorica che lo rende irriconoscibile. Ai molti che non ne conoscono le regole appare la sfrenatezza di un regime psichico primitivo segnata dai gesti di ragazzotti saturi di irrequieto testosterone. In questa luce, non se ne intravedono le metamorfosi di comportamento che si consumano nel gioco né quanto quelle metamorfosi siano indotte da un pratica auto-repressiva, governata dal Super-Io. Credo che non sia coerente allora parlare di “follia”, di “caos”, di «una partita di calcio che va fuori di testa». Il rugby è una faccenda per niente caotica o folle. Quindici uomini (o donne) contro quindici, separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla palla, in gara per conquistare l’area di meta e schiacciarvi l’ovale. Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende insieme. Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te e la tua squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura spudorato nella sua essenzialità. È colto perché, nonostante l’ apparenza, è l’esatto contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue manifestazioni migliori, mai scava nella cloaca degli istinti o nel gorgo emotivo. Al contrario, impone controllo. Dicono che educhi, ma istruisce. Dicono che dia carattere, invece accultura. Postula una placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza gesuitismi o imposture. Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l’odio è paura cristallizzata, odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale prima che fisica. Esclude la mossa furbesca, la sottomissione gregaria, l’ arroganza del prepotente. Aborre ogni cinismo immoralistico perché è capace di essere schietto e leale nonostante la violenza o forse proprio grazie a quella. Dite, si può immaginare qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby (valori, pratiche, comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con quella specificità italiana che glorifica l’ingegno talentuoso e non il metodo. La furbizia e non la lealtà. L’inventiva e mai la preparazione. Il “miracolo” e mai l’organizzazione. L’individualità e mai il collettivo. Il caldo piacere autoreferenziale del “gruppo chiuso” e mai il desiderio di farsi stimare da chi al “gruppo” (ceto, famiglia, corporazione) non appartiene: la più grande soddisfazione di un giocatore di rugby, anche se sconfitto, è l’ammirazione che suscita nell’ avversario. Il rugby – la comprensione del gioco, della sua nervatura, del suo spirito e consuetudine – spiegano, come meglio non si potrebbe, il deficit del carattere italiano e le debolezze del nostro stare insieme. Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così estraneo all’identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio per riformarla. L’appuntamento è al Velodrome di Marsiglia, l’ 8 settembre. Le prenderemo, ma non importa. Play up and play the man! – GIUSEPPE D’ AVANZO”

Ciao Peppe!!!